Trasformazione
Non è molto comodo piantare le viti col martello.
Ostinarsi nelle vecchie pratiche è faticoso.
Ma applicare le pratiche nuove
con le vecchie mentalità
è ancora più faticoso.
Se devi piantare delle viti conviene prendere un cacciavite (magari un avvitatore) e usare un dispositivo nuovo più adeguato; oppure puoi tornare ai chiodi e userai un sistema più rozzo, ma svelto ed efficace per le cose sommarie e sbrigative.
La cosa importante, a cui dedichiamo queste pagine, è che non costruirai lo stesso mobile se lo vuoi assemblare coi chiodi oppure con le viti. O meglio, non penserai, non progetterai lo stesso mobile.
Per essere ancora più esatti: non sarai lo stesso tipo di progettista.
Potrai però essere benissimo la stessa persona che progetta in modo diverso a seconda delle circostanze, perché il nuovo comprende il vecchio se li conosci entrambi: aggiusterai la sedia vecchia con qualche chiodo, un po’ di spago e di vinavil perché non ti crolli sotto al sedere nel tempo che ne progetti e realizzi una nuova solida e fiammante per i prossimi decenni usando viti, colle tecnologiche e elettroutensili nuovi.
In questo articolo non parliamo di strumenti ma di mentalità, di management del cambiamento, di come diventare capaci di progettare pensando alle viti in un mondo di martelli e di chiodi.
Anche gli strumenti sono importantissimi, è ovvio; ma per queste pagine lasciamoli perdere perché gli strumenti nuovi senza mentalità nuova fanno di noi degli apprendisti stregoni: vi ricordate Topolino in Fantasia di Walt Disney, quando pensa di fare il mago sulle musiche di Dukas? prova a replicare certi trucchi magici del suo maestro, come comandare alle scope di riempire i secchi d’acqua, ma non sa come controllarle con risultati comicamente disastrosi.
La storia dell’apprendista stregone viene da lontano: da un poema di Goete, a sua volta ispirato da un’arguta satira dei tempi dell’antica Grecia, di Luciano di Samosata, quindi la questione si pone già da un paio di millenni prima delle tecnologie digitali: per essere davvero potenti non basta avere gli strumenti che ci danno delle potenzialità aumentate.
Quei mezzi, se usati senza averne la cultura d’uso, possono facilmente smascherare la nostra inadeguatezza e metterci in ridicolo.
Meglio trovarsi nel caso opposto: avere una mentalità nuova magari disponendo solo degli strumenti vecchi davanti alle nuove opportunità: possedere solo chiodi e martello, ma prepararsi agli avvitatori. Anche così la situazione è faticosa, ma molto più generativa e (se stai al gioco) anche più divertente.
In che senso un’automobile non è un cavallo
Diceva Henry Ford: I miei clienti non volevano una macchina modello T, volevano un cavallo più veloce.
Era un’altra epoca, c’era un’altra idea di fabbrica eppure vediamo una grande somiglianza col cambiamento in atto nei nostri tempi, dove le nuove opportunità sopravanzano le precedenti abitudini mentali.
O forse dovremmo scrivere che vediamo una somiglianza con la trasformazione in atto? o con la metamorfosi in atto? o con la mutazione genetica in atto? O con la rivoluzione? O con la reciproca ibridazione tra le forme?
Cambiamento e trasformazione sono due concetti diversi
Usiamo spesso cambiamento e trasformazione come se fossero sinonimi. La differenza tra i due significati c’è e se non la vediamo è probabile che metteremo il carro davanti ai buoi, nel senso che crederemo (come tanti credono) che il cambiamento produca la trasformazione.
Può essere vero se non sei un manager, o comunque se non cerchi di essere un innovatore: se non sei scienziato, artista, creativo, attivista sociale o semplicemente una persona qualsiasi che si fa qualche domanda sul senso della sua vita…
Ovvio, se resti passivo a subire il cambiamento esso ti trasforma, come no, ma è chiaro che sarà il cambiamento a plasmare te e non viceversa: la tua identità, le tue abitudini, le tue idee sul mondo, il tuo comportamento.
Il processo è fatale. Perfino se tu ostinatamente decidessi di non cambiare affatto, in un mondo che cambia intorno a te non potresti mai restare la stessa persona che eri prima, perché cambierebbero l’adeguatezza dei tuoi progetti, l’efficacia delle tue azioni e la tua capacità di interpretare le situazioni.
Essere trasformati passivamente non è molto generativo.
Ed è anche pericoloso: ne viene fuori una selezione molto darwiniana in cui il meno adatto rischi di essere tu, in questa globalizzazione spietata che non fa prigionieri. No, meglio evitarlo. Il prezzo è “solo” un cambiamento di mentalità, o meglio -per usare le parole giuste – una trasformazione.
È un cambio di mindset, mind+set, dove set è l’impostazione ma anche la scena.
“Tutto quello che non si rigenera, si degenera”
Lo dice Edgard Morin. Dice anche che siamo tutti processi viventi in un mondo che pulsa tra organizzazione e dissipazione. Tra homo sapiens e homo insipiens.
Chiamiamolo libero arbitrio, chiamiamolo responsabilità di pensare: per rigenerarci dobbiamo prendere senso di responsabilità, agire liberamente ma secondo un progetto lungimirante e coerente, sempre capaci di dare conto delle nostre azioni, argomentare e difendere le nostre scelte e decisioni.
Che è l’opposto del determinismo, quella mentalità in cui date delle cause accadono degli effetti e tutti possono dire “è così che vanno le cose, io cosa ci posso fare?”
Qui stiamo parlando di management, ma se ci pensate il problema è generale. È sempre Morin a ricordarci che l’uomo aumentato non è automaticamente un uomo migliorato.
Anche perché nella trasformazione passiva c’è un’accelerazione micidiale con novità sempre più rapide a cui devi adeguarti; lo stress è enormemente maggiore. E sono maggiori anche la fatica, la frustrazione, perché ci si sente sbattuti di qua e di là come una pallina nel flipper, in quella situazione senti il messaggio più negativo di tutti: che ogni sforzo è inutile.
È la condizione di quasi tutti intorno a noi, eppure uscirne non è difficile.
La trasformazione è gratis, ma costa moltissimo.
Torniamo a parlare di cambiamento e trasformazione.
Come sapete, da un quarto di secolo noi facciamo corsi e affiancamenti ai manager su: “la trasformazione che genera cambiamento”, quindi ne abbiamo viste tante, in tante aziende di ogni dimensione.
Quello che abbiamo definito cambiamento riguarda, ad es., le tecnologie di una fabbrica: costa soldi, tempo, fatica, ingegno, rischio di sbagliare…
Ribaltare la mentalità dei manager è quella che chiamiamo trasformazione, è una metamorfosi dei processi logici interiori: motivazioni, punti di vista: costa “solo” un po’ di metamorfosi psicologica e di onestà intellettuale.
Guardacaso il cambiamento, costoso in termini materiali, viene deciso e realizzato molto più spesso della trasformazione culturale, che è costosa solo in termini psichici e morali, e quindi sembra secondaria.
E così arrivano i guai, che sono culturali e hanno effetti materiali (tecnici, economici, finanziari, logistici…) e che sono moltiplicati nella loro gravità perché ci trovano senza le adeguate risorse di cultura d’impresa: decisionali, organizzative, di assertività, di coerenza e soprattutto di visione. È un circuito vizioso.
Detta fuori dai denti: facendo il nostro mestiere di consulenti troppo spesso vediamo aziende anche importanti disposte a spendere molti milioni e diversi anni di lavoro per cambiamenti hard, ma non disposte a spendere poche migliaia di euro e poche decine di giorni/uomo per fare degli affiancamenti ai manager ( come questi) per accompagnare la trasformazione che genera il cambiamento.
È chiaro che il problema è lì, in quel carro messo davanti ai buoi.
Ci sono diversi casi studio su questa contingenza; due famosi sono stati:
Quello della BBC: una decina d’anni fa ha preso la trasformazione digitale come un problema tecnico, non come una trasformazione culturale. Ci ha speso 100 milioni di sterline per “preparare completamente la BBC per il mondo digitale on-demand” ma poi PwC ha svelato un disastro, dovuto a una grave debolezza nella governance, nella gestione e nel reporting dei programmi e nel cambiamento del business.
Quello della Co-op Bank che ha bruciato investimenti per 300 milioni in un programma di transizione, che si sono aggiunti al suo grave deficit di capitale. Un rapporto indipendente ha citato “cambiamenti destabilizzanti nella leadership, mancanza di capacità adeguate, scarso coordinamento, eccessiva complessità, piani sottosviluppati in continuo cambiamento e budget inadeguato”.
No, non è la BBC
È indicativo che PwC abbia posto alla BBC cinque domande che noi, nel nostro piccolo, facciamo ai manager durante i nostri affiancamenti.
Solo che loro le hanno fatte dopo, noi preferiamo farle prima (non ci piace chiudere la stalla quando i buoi sono scappati).
1. governance: quali accordi si mettono in atto per la supervisione del processo tecnico digitale da parte dei team? Sono adatti allo scopo?
2. gestione del progetto e finanziaria: quali accordi di gestione finanziaria garantiscono che il sistema fornisca i benefici attesi rispettando abbastanza bene i tempi e i budget? le risorse umane hanno le soft skills per gestirli davvero?
3. gestione del rischio: cultura organizzativa e processi supportano il rischio implicito nel progetto?
4. rendicontazione esecutiva: quali flussi di informazione (consegna, approccio tecnico, costi, rischi) sono messi in atto per informare i decisori? I decisori li seguono davvero? e poi interagiscono ascoltando o si limitano a esercitare un controllo? Che margine hanno i team per “guidare a vista” e adeguare il percorso in tempo reale verso la meta stabilita?
5. rendicontazione di progetto: via via che si procede, ci sono accordi concordati sulla rendicontazione del progetto e del rischio? I rapporti funzionano?
Attenzione: forse non vinci al superenalotto
ma c’è una lotteria-al-contrario che ti aspetta.
In questo articolo non parliamo dei cambiamenti fortunosi o casuali: è chiaro che se vinci al superenalotto o ti cade un meteorite in testa, la metamorfosi trasformativa di cui stiamo parlando diventa un problema secondario.
Eppure il problema si pone.
Come ci insegna il famoso trader-saggista Nassim Taleb quando parla di cigni neri, siamo in un paradosso: è probabile che succeda qualcosa di improbabile. La prosa di Taleb è popolata di vari uccelli: la metafora del cigno nero rappresenta qualcosa che nessuno pensava che potesse esistere, come i cigni che erano solo bianchi (anche nei proverbi) fino a quando qualcuno arrivò in Australia e ne trovò di neri.
Nella storia imprenditoriale (e anche finanziaria), i cigni neri sono gli eventi rarissimi, che quindi nessuno si aspetta, ma poi arrivano, hanno un impatto prepotente sul sistema globale e col senno del poi vengono teorizzati in campo storico, scientifico, finanziario o tecnologico.
I cigni neri possono essere positivi o negativi, più spesso sono utili per qualcuno e disutili per qualcun altro.
Sono cigni neri il COVID o la guerra in Ucraina, tanto per dire: due cose “quasi impossibili” che sono successe e che dopo, leccandoci le ferite, abbiamo capito che avremmo dovuto prevedere. Siamo in un mondo enormemente complesso, esposto a cigni neri climatici, bellici, epidemiologici, geopolitici, finanziari: potremmo andare avanti con l’elenco per pagine, e stanotte non dormiremmo.
Ciascuno di essi è altamente improbabile, ma sono tantissimi. Prima o poi qualcuno capita e l’effetto è enorme.
E tuttavia nessuno di voi si aspetta che domani un drone vi entri dalla finestra dell’ufficio spargendo del polonio, o che un terrorista svizzero versi un chilo di cianuro nell’acqua potabile della vostra città: l’impossibilità di calcolare con metodi scientifici la probabilità di tali eventi rari e carichi di conseguenze (a causa della natura stessa delle probabilità infinitesimali) ci fa assomigliare ad un altro uccello citato da Taleb: il tacchino-scienziato-statistico. È il tacchino che, negli USA, prima del giorno del ringraziamento ha le prove statistiche rigorose che il macellaio lo curerà sempre amorosamente e che quindi potrà starsene tranquillo a beccare il mais fino alla vecchiaia.
Così a volte facciamo come lo struzzo, terzo uccello-metafora, che davanti a un pericolo, come noto, mette la testa in un buco. Qui lasciamo perdere lo struzzo vero (che pare abbia dei suoi motivi mimetici per fare così quando arriva un carnivoro), la questione per noi umani è che quando mettiamo la testa in uno spazio protetto dove non vediamo il pericolo, ci rilassiamo come se esso non esistesse: è un silenziamento della percezione, una sorta di anestesia ambientale creata nell’orizzonte miope di un foro per terra, come lo struzzo che però intanto lascia le terga esposte al nemico.
La trasformazione genera il cambiamento, ma non è un semplice meccanismo lineare di causa-effetto, è un processo circolare di condizionamento reciproco tra manager e mondo.
Si tratta di vedere come ci collochiamo noi in quel vortice vertiginoso con la nostra intenzione attiva.
La barba e il seno crescono da dentro
Ogni preadolescente che si guarda allo specchio si studia i primi cenni di seno sul petto o di peli sulle guance, che spuntano timidamente. C’è ansia e curiosità, impazienza e timore. Sa che quando cambierà il corpo, cambierà tutto.
Per capire cosa gli succederà sembra più facile guardare gli altri che ascoltare se stessi e questo è rischioso, specialmente a quell’età: magari ti fai dei modelli ( stelle dello spettacolo, dello sport, della musica…) e poi via via ad essi ti paragoni e il raffronto è quasi sempre frustrante.
Se potessimo tornare indietro a quell’età con la saggezza adulta diremmo al nostro io dodicenne: ascoltati profondamente, interagisci senza ruoli, non accelerare la crescita, non far finta di essere quello che non sei, ma cresci: studia, impara, sperimenta, prova.
Noi allora avevamo vari adulti che ci dicevano così, ma non li ascoltavamo molto: è chiaro che prima ci siamo trasformati dentro, poi siamo cambiati fuori (aspetto, voce, ma anche desideri, cognizioni e ruoli).
L’urgenza veniva da dentro: carne e idee, ormoni e miti, quella era la trasformazione.
La voce che veniva dagli adulti no, quella era solo una richiesta di cambiamento.
Essere generativi non è “tanto per cambiare”
Morale: se ci chiedete un corso o un affiancamento come questi, da noi non riceverete proposte per un cambiamento dall’esterno, perché la metamorfosi può venire solo da dentro.
Ci potete sfruttare molto meglio per accompagnarvi a diventare cambiatori, per trasformarvi in change maker.
immagine di copertina: “Free person mountain rock climbing” / la foto è contrassegnata con CC0 1.0.
in alternativa:
“Black Swan.(Cygnus atratus)” by Bernard Spragg / la foto è contrassegnata con CC0 1.0.
Photo by Patryk Dziejma on StockSnap / la foto è contrassegnata con CC0 1.0.
“Why Do Tools Get a Bad Rap?” by cogdogblog/ la foto è contrassegnata con CC0 1.0 CC0 1.0.