la ledership generativa
Guardarsi l’ombelico non è così interessante.
È la lettura sistemica che fa il leader.
«Non cambierai mai qualcosa combattendo la realtà esistente.
Per cambiare, costruisci un modello nuovo che renda quella realtà obsoleta.»
Maarten Hajer, docente di Futuri Sperimentali all’Università di Utrecht
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Se qualcosa va storto alla centrale nucleare,
incolpa il tipo che non parla inglese.
Homer Simpson
Quando un leader sa leggere il sistema, riesce a valutare le interazioni e a prevedere le conseguenze delle sue decisioni.
Così può agire in modo consapevole e strategico.
Ok, questa è la teoria e dirlo è facile.
Farlo è più difficile? Dipende.
La verità spesso si nasconde mostrandosi in modo troppo evidente
Spesso l’ostacolo ce l’abbiamo proprio lì, davanti agli occhi e spesso reclama di farsi vedere. Eppure siamo così concentrati a capire la rotta che non ce ne accorgiamo.
Sono gli occhiali che abbiamo sul naso che ci fanno leggere il mondo con dei filtri distorti: linguaggi, abitudini, aspettative, criteri, idee del proprio ruolo, mission obsolete.
Ad essi si aggiungono le tare più generali: pregiudizi, ideologie, incomprensioni interculturali,…
Che a loro volta nascondono le questioni dell’inconscio: approfondirle non è il nostro mestiere, ma è chiaro che nessuno vuole sentirsi impreparato, perdere le certezze, annegare nei dubbi, sembrare ridicolo, eccetera.
Insomma tra noi e il mondo ci sono tre o quattro paia di occhiali sovrapposti.
Elogio dell’ingenuità saggia
Per leggere il sistema occorre guardarlo con occhi puri, solo così puoi leggere il sistema come se fosse un foglio.
Basta con lenti e filtri: per leggere un sistema complesso ce li dobbiamo togliere, ma se anno dopo anno li abbiamo indossati, c’erano dei motivi: verità abbacinanti, sguardi troppo miopi o troppo presbiti, specchi per non far capire cosa osservi e cosa pensi.
È facile levarli senza ricordare perché ce li siamo messi? È facile decidere che non ci servono più? No, ma occorre. Non di colpo, certo, se no ti accechi; però in fretta.
Un po’ di coraggio ci vuole e nella scelta ti sembrerà di perdere una sicurezza, una protezione, uno strumento. Nei film l’eroe coraggioso agisce da spavaldo; nella realtà il coraggioso accetta un momento di vulnerabilità e insicurezza: è abbastanza saldo, strutturato e sicuro di sé per non temere questa parte.
Eccoci:
è esattamente il passaggio tra essere “capo” ed essere leader.
Capo nel senso che ha questa parola nell’età industriale, non il capo di un villaggio in altre antropologie o di un branco di altre specie.
Essere leader all’inizio sembra più difficile che essere capo. Ci vuole un po’ di tempo per capire che è più gratificante, efficace, meno stressante e anche meno pericoloso: in una società ad alta complessità essere leader è difficile ma essere “capo” è impossibile. Ora serve una mentalità aperta e una prospettiva globale. Serve ritrovare una certa verginità ingenua e tuttavia restare solidi, maturi e saggi.
Esempio tipico: il “capo” vecchia maniera aveva perfetta misura delle risorse quantificabili (macchine, materie prime, pezzi…) ma le altre risorse (quelle umane, inclusi stakeholder, indotto, clienti business…) erano quasi sempre sotto o sovrastimate: oggi queste risorse qualitative sono diventate l’asset strategico fondamentale.
Per qualche generazione l’ingenuità e la saggezza sono state considerate due virtù incompatibili. Anzi, l’ingenuità da secoli non era più neanche una virtù, è stata percepita in senso negativo: la parola non dice che sei incontaminato, innocente e aperto al nuovo, neanche che hai la fortuna di trovarti al momento zero di una nuova scoperta o conoscenza. No, al contrario se sei ingenuo sei un po’ fesso, sfigato, inesperto, non ci sai fare in questo mondo di pescecani, sarai una preda e non un predatore.
Ma non è vero, anche questo è un occhiale da togliersi: Platone e i filosofi orientali antichi dicevano il contrario, che saggezza e ingenuità viaggiano insieme: ci vogliono molto allenamento, esperienza e meditazione per riuscire a svuotarsi come un vecchio eremita che ascolta il mondo come un bambino.
Ingenuus (da in-generare) in latino vuol dire nato libero e anche onesto, schietto, semplice (Treccani).
Quindi è meglio essere “ingenui” davanti alla complessità del sistema che vogliamo leggere.
Edgar Morin dice: ”non si può passare da un sistema semplice a uno complesso, se prima non si esce dal sistema semplice”.
Una lettura del sistema che biasima l’ingenuità non è adeguata al mondo complesso, si illude che tutto il nuovo possa essere contenuto nell’esperienza del vecchio: questo errore sì che è ingenuo nel senso di stupido.
Azione e reazione, causa e effetto…
un meccanismo banale.
“Se ha sempre funzionato così, quindi funzionerà sempre così e se adesso non sta funzionando è solo una strana eccezione”.
È un ragionamento stolto o saggio?
Se sei un raccoglitore di erbe officinali è saggio, se guidi un’impresa in un’epoca di grandi cambiamenti, no.
Il cambiamento richiede un momento zero in cui hai la mente aperta e sei pronto a ricevere le novità in modo assolutamente ingenuo. Serve capacità, proprio nel senso di un contenitore vuoto. Se vi piace chiamiamola ingenuità saggia.
L’importante è stare attenti alle risposte automatiche. Ciascuno di noi ha i suoi stati interni (esperienze, storie, emozioni, desideri…) e stimoli esterni.
Non siamo un interruttore (tu lo schiacci e si accende la lampadina: una trivial machine, direbbero i cibernetici: un dispositivo banale).Non siamo un automatismo semplice di causa-effetto. Siamo un dispositivo non-banale.
Questo può essere l’equivoco, se l’esperienza ci porta a rispondere ad un problema con una risposta automatica, forse crediamo di essere esperti, invece rischiamo di essere dei relè.
Solo frenando le risposte automatiche possiamo identificare le origini dei problemi, comprendere le interdipendenze e prevedere le possibili conseguenze delle azioni intraprese.
Solo così possiamo prevedere e poi valutare l’effetto delle decisioni e delle azioni su tutto il sistema, così si prevengono certi effetti indesiderati o certe reazioni a catena.
Quella che i cibernetici chiamano macchina banale gli antichi lo chiamavano fato: quello che gli Dei decidono è immutabile, predefinito: fatale. C’è un agente esterno che agisce su una persona, su un’azienda, su uno spicchio di mondo.
Quando parliamo di sfiga non ce ne rendiamo conto ma siamo pagani.
La Dea Sfiga è ancora imperante nei nostri inconsci e noi umili mortali le siamo inconsapevolmente devoti ogni volta che rinunciamo alla leadership.
Le due caratteristiche note della Dea sono:
- che ci vede benissimo
(per forza, i suoi occhi sono i nostri) - che i suoi effetti ci arrivano a grappolo
(questo ci sembra particolarmente sfortunato mentre è normale, in un ecosistema di concause)
Il contrario del fato è il destino.
Se il fato è una conseguenza determinata dagli Dei (quasi sempre incazzati per i fatti loro, a danno di noi mortali), io non ci posso fare niente.
Col destino è tutt’altra cosa: io (o la mia entità) sono parte attiva, io contribuisco a generare alle conseguenze, ad es. di un progetto. Sono perfettamente cosciente di questa partecipazione.
Un aneddoto su un direttore di produzione: in un’azienda che aveva avuto un momento difficile doveva dare nuova linfa alla produzione e migliorarla perché non era più competitiva.
Allora implementa una soluzione che dota tutti i dipendenti di uno smartphone per spostarsi tra le postazioni e minimizzare i tempi morti: il sistema dirà anche se ciascuno sta andando più veloce o più lento di quello che sta di fianco a lui.
Dal suo punto di vista questo avrebbe motivato le persone a lavorare più velocemente.
Ovviamente è facile capire com’è andata: dire alle persone che devono fare le cose non significa ottenere che lo facciano.
Anzi, se glielo impongo senza leadership e suscitando concorrenza reciproca, è probabile che facciano l’opposto.
Anzi: è fatale.
Bateson qui si diverte a raccontare cosa succede quando vogliamo usare uno strumento “causa” per ottenere uno scopo “effetto”.
Parla di giocare a croquet con una mazza per colpire una palla, che deve passare attraverso delle porte.
Però la giocatrice è Alice e il posto è il Paese delle Meraviglie. Per giocare a croquet deve usare un fenicottero come mazza ed un porcospino come palla. Cioè non due oggetti ma due viventi che sanno cosa vogliono e non vogliono.
Il fenicottero (la mazza), brandito per le zampe per colpire il porcospino (la palla), non ne ha nessuna voglia e continua a muovere la testa. Neanche il porcospino ha voglia di essere colpito da quell’uccello: un po’ scappa, un po’ si trasforma in una palla di spine, che naturalmente il fenicottero cerca di evitare.
Alice, come chiunque tenti di essere un leader strumentale e manipolatorio, spinge i soggetti a fare l’esatto contrario di quello che lei avrebbe voluto.
È tempo di decidere senza guardarsi l’ombelico
Ecco, in tutto questo sito (e in tutto il nostro lavoro) parliamo di leadership.
Qui chiudiamo dicendo che il vecchio modello aziendale ci faceva indossare occhiali ombelicocentrici: con le diottrie esatte per guardare solo la pancia dell’azienda.
Ecco, se qualcuno li ha ancora sul naso secondo noi può toglierseli.
La pancia dell’azienda è molto meglio ascoltarla.