collaborare
La complessità è un gioco di squadra.
«Non la finanza. Né la strategia. Né la tecnologia.
Il vantaggio competitivo fondamentale è il lavoro di squadra, sia perché è così potente, sia perché è così raro.»
Patrick Lencionif, La guerra nei team
Non esiste Babbo Natale, i bambini non li porta la cicogna e il manager non deve sempre tirar fuori la risposta vincente dalla sua singolare scatola cranica.
In questo mondo ad alta complessità, neanche se tu fossi figlio di Albert Einstein e Ada Lovelace ce la faresti.
Anche perché quasi sempre ci confrontiamo con questioni mal poste: siamo assillati da domande semplicistiche espresse dalla lettura sbagliata di un contesto complesso.
I pensieri indefiniti nel cervello rimbombano e surriscaldano l’entropia. Se invece ne parli con altre persone affidabili è come aprire una finestra e rinfrescare le idee.
È normale, è nel dialogo che i pensieri “si mettono in fila”, nel soliloquio si ingarbugliano di più.
Purché siano davvero affidabili: è importante; non qualcuno che fornisce la risposta con una formula semplice e definitiva; il mondo è pieno venditori di pozioni magiche la cui capacità persuasiva è inversamente proporzionale all’adeguatezza delle loro soluzioni.
Il team serve per ridefinire il problema
Scommettiamo? voi avete un problema, mettete su un bel gruppo di lavoro con persone esperte nei diversi rami, ci lavorate insieme un po’ e… cosa scoprite?
Nove volte su dieci scoprite che il vero problema è un un po’ diverso, che la percezione (e la narrazione) iniziale del problema portava fuori strada.
Scoprite per l’esattezza che bisogna riformulare le categorie, leggere dati diversi, studiare nuove cose, soprattutto rivedere le priorità.
- la risposta “vincente” spesso è solo convincente
- la risposta giusta a una domanda sbagliata può generare disastri inenarrabili: lo avete già visto troppe volte
- spesso la soluzione migliore guarda lontano e richiede un cambiamento; questo a breve sembra un problema.
È evidente: una testa sola non basta.
Ma attenzione, quando finalmente il gruppo ti dice: “capo, la tua domanda è formulata male”, devi essere abbastanza sportivo e capace di aspettartelo. “Capace” proprio nel senso della capacità che ha un contenitore di farsi riempire, quindi: prenderla bene e ringraziare; mica facile, le prime volte se non ci sei abituato, perché anche se sorridi magari hai l’impressione che sia smentito il tuo carisma e che il tuo potere diminuisca. Ovviamente è vero il contrario, ma solo se te la giochi da leader e non da capo-vecchia-maniera.
Ma a parte l’aspetto psicologico, a volte la conclusione del team è che serve un ripensamento strategico generale, e avrai l’impressione che molto del tuo lavoro precedente sia sottovalutato, frainteso, buttato via: con tutto il tempo che ci ho dedicato, con tutti i soldi che ci ho speso… Ci sta, è un rischio che si corre; il coraggio di cambiare costa proprio per questo, se no sarebbe facile.
E poi l’alternativa quale sarebbe? sprecare altre risorse nella direzione sbagliata?
Il team serve per rallentare il problema
Devo fare, fare, fare! io sono un uomo concreto e non ho tempo da perdere per pensare a quello che sto facendo. Capita anche a te, ogni tanto, questo paradosso?
Un po’ di accelerazione ci galvanizza, aumenta la dopamina, certo. Ma ci mette un attimo a diventare velocizzazione tossica. L’accelerazione (in azienda ma anche nella vita quotidiana di tutti) è una risposta alla complessità che può rapidamente diventare autolesionista.
E raramente è una soluzione efficace, spesso diventi come il ciclista che, dovendo competere con una Formula 1, cerca di pedalare più forte.
Lascia perdere e taglia per i vicoli: questo sciame di biciclette (le PMI europee in questo mercato dove siamo tutti nicchie) sono agili quindi possono passare per vicoli, stradine di montagna e centri storici: là dove si scambiano le cose nuove e interessanti, lasciando l’asfalto dell’omologazione alle multinazionali.
Certo, tu ti vedresti meglio su una Ferrari da corsa che su una bicicletta, ma anche tu, dovendo scegliere tra una bici agile e una F1 senza benzina dentro (quei grandi capitali con troppi zeri per te) e senza asfalto sotto (la logistica dei grandissimi numeri), ti stufi di star fermo nella bella macchina aspettando che diventi ruggine: scendi, prendi la bici e pedali.
Et voilà, così capita perfino di diventare più orgoglioso della propria PMI in mezzo alle multinazionali; e forse ti diverti pure a pedalare come quando eri più giovane: è un pezzo che ci si diverte poco nel fare questo mestiere.
Ecco: in teoria puoi farlo benissimo con una direzione individuale e accentrata, verticale a cascata. Ma sarà un caso, chi ci sta davvero riuscendo lavora a gruppi orizzontali.
Ci riesce chi lavora con diversi gruppi in parallelo, invece che affrontare da solo le questioni in serie una dopo l’altra (cosa peraltro impossibile, lo sai: si mescolano nell’agenda e nella testa, e intanto arriva sempre qualcosa di più urgente delle vere priorità strategiche).
Il team serve a fare 1+1=11
Se ci sono da raccogliere cinque ettari prima che piova e un bracciante ne può fare uno, è inutile pretendere che ne faccia 1,5 o 2 (neanche i romani che frustavano gli schiavi l’avrebbero fatto): chiami altri 4 braccianti.
Se c’è un muro di 500 mattoni da fare entro stasera e un manovale ne può tirare su 100, idem. Eccetera.
Dunque, se c’è da pensare per 5 perché non chiami altri 4 cervelli?
Tu devi generare qualcosa di più complesso, e qui ci sta la famosa citazione del software designer Frederick P. Brooks Jr. : 9 donne non fanno un bambino in un mese. Era il 1975, e questa citazione (che è alla lettera “generativa”) ancora adesso dopo mezzo secolo dobbiamo spiegarla: che per fare un bambino non bastano 9 mesi/donna (che naturalmente sono imprescindibili), serve l’incontro tra due gameti (cioè entità diverse tra loro che si incontrano); e che lui, il bambino, si fa da solo (come le idee), si fa amare in modo spontaneo (come le buone idee) ma devi curarlo, nutrirlo e crescerlo e a volte è maledettamente faticoso (come con le idee migliori).
Si chiama maieutica ed è di moda fin dai tempi di Platone: la verità è già dentro di noi ma occorre una levatrice che aiuti a partorirla. Lo sappiamo già tutti, se no non ci farebbe ridere Corrado Guzzanti quando dice “la risposta è dentro di te, ma è sbagliata”.
Ci stavamo chiedendo: se c’è da pensare per 5 perché non chiami altri 4 cervelli? Credi che perderai status, potere o ruolo? Sai già che è vero il contrario, il capo che sa ascoltare e indirizzare è per tutti il migliore; stiamo dicendo che è anche il più efficace e il più generativo.
Ma qui viene il bello: con tutto il rispetto per il bracciante e per il muratore, in un lavoro ripetitivo e poco creativo se un lavoratore fa un tot, due ne fanno il doppio: 1+1=2. Invece con le idee non funziona così.
Quando la riflessione, l’ideazione, la progettazione, l’interpretazione dei feed-back non nascono più in una testa sola, sorgono insieme da una serie di menti che funzionano in parallelo. Io fecondo te che fecondi me. Nel team si crea quella “corrente” (che è tecnica ma anche emotiva e motivazionale) in cui le nostre capacità creative, sintetiche, di intuizione e di immaginazione si moltiplicano. I risultati aumentano di un esponente, per questo si dice che 1+1=11; c’entra molto col famoso pensiero laterale: la generazione di nuove idee e la risoluzione di problemi in modi non convenzionali.
Non significa necessariamente essere più intelligenti, significa gestire in modo più intelligente l’intelligenza di cui disponiamo.
Come vedremo fra poco, persino le formiche, col loro cervellino di qualche microgrammo, sono squadre che riescono a fare cose formidabili grazie alla sworm intelligence.
Il team serve a far volare il bombo
I problemi complicati sono pesanti. I problemi complessi, leggeri.
Ancora una volta serve distinguere tra complicato e complesso.
Spesso usiamo queste due parole come se significassero più o meno la stessa cosa, invece sono due concetti diversi e quasi opposti.
Pensate a quella divertente frase sul volo del bombo, citatissima sui social e attribuita a Einstein (che non l’ha mai detta, è di un prof. di zoologia di Cambridge, Torkel Weis Fogh, quello che ha spiegato il fenomeno):
“Il bombo non può volare a causa del suo peso in rapporto alla sua superficie alare. Ma lui non lo sa e continua a volare lo stesso”.
Il bombo quando vola non sa niente di aerodinamica, fisica dei fluidi, gravità… vola e basta.
La sua specie invece lo sa benissimo, in centinaia di migliaia di anni di ricerca e sviluppo ha evoluto strane increspature sotto le ali che creano delle turbolenze vantaggiose facendolo “galleggiare” nell’aria.
È chiaro che se sei un biologo e cerchi di capire come fa, per te è difficile.
Dunque lo stesso svolazzamento tra le mie gardenie per l’individuo-bombo è semplice, per la sua specie è complesso; per lo studioso è complicato, finché non capisce la logica che lo fa funzionare.
E a quel punto gli scienziati parlano di armonia tra le parti di un sistema e gli ingegneri parlano di eleganza delle soluzioni, che sarebbero parole da artisti.
Adesso vediamo la stessa faccenda nel gruppo.
Tu suoni l’oboe in un’orchestra sinfonica di 100 elementi che esegue la nona sinfonia di Beethoven. Finché studi la tua parte è difficile, ci sono molte complicazioni. Poi parte la magia del suonare insieme e improvvisamente fai parte di un’unica armonia potente come un’onda che nel corso dell’esecuzione è languida, potente, gagliarda, struggente, per non parlare dell’Inno alla Gioia che quando arriva rende davvero tutti gioiosi, musicisti, direttore e pubblico.
Morale: una cosa che appare complicata, spesso è solo complessa: quando cogliamo la sua struttura, la sua un’armonia, allora diventiamo parte di quel sistema.
Insomma un problema, uno stress, una questione, passa da complicata a complessa quando noi la comprendiamo, alla lettera: con-prendiamo, diventa parte di noi, che diventiamo parte di lei. Ci arricchiamo cominciando ad appartenere a quella complessità.
Invece è complicato qualcosa che è davvero intricato perché appare disorganizzato, di difficile comprensione o gestione. In gergo: è un gran casino, ma se preferite gli archetipi, è il gran Caos, anagramma di caso; ecco che anche qui incombe la dea della Sfiga che è sempre pronta a colpire chi vede il complicato dove c’è il complesso.
Succederebbe, ad esempio, se volessimo eseguire la Nona di Beethoven con la banda del paese…
Dovremmo prima fare degli arrangiamenti; e allora sì, l’Inno alla Gioia potrebbe essere assai gioioso. L’obiettivo non è piegare e “semplificare” Beethoven, ma con-prendere quella gioia musicale e riuscire a farne parte.
Tutto questo discorso è per paragonare l’orchestra al team?
in parte: la metafora leader=direttore d’orchestra è un po’ abusata ma efficace. Però vale per un’organizzazione più grande.
Un team potrebbe essere al massimo un’orchestra da camera, magari un quartetto o un quintetto (che non ha bisogno di un direttore, se mai di un direttore artistico e di un regista).
Anche il paragone tra leader e direttore d’orchestra non calza sempre perché diversi direttori importanti del 900 erano parecchio dispotici, stizzosi e narcisistici, credeteci: per quanto fossero geni, non li vorreste come capi.
Meno male che oggi le orchestre funzionano meglio, anche perché di solito sono condotte in modo assai più amichevole e co-creativo: le prove durano meno, il suono è migliore, nessuno è annichilito.
Quando è intersoggettivo il pensiero complesso è più leggero, non più pesante: è il solo modo di pensare che permetterà a questo sciame di bici che sono le PMI ad essere agili e pedalare sui percorsi su misura per le loro gambe.
Il team serve a prendersi quel minuto in più per concentrarsi…
Guarda sul trampolino il tuffatore mentre si concentra. La durata di un tuffo sarà forse di un secondo, ma lui sta lì fermo per molto più tempo. Cosa gli passa per la testa?
Intanto lo stanno guardando centinaia di persone; forse, attraverso le telecamere, milioni.
Ma lui sta lì.
Se non si facesse sordo, se non tenesse gli occhi chiusi per quel tempo che sembra lungo, si tufferebbe male, lo sappiamo tutti, sbaglierebbe; così stiamo a guardarlo mentre fa i suoi respironi profondi e intanto siamo noi quelli in apnea.
La medaglia d’oro Tania Cagnotto scrive qui:
“più che contro l’avversario, il tuffatore deve lottare contro se stesso, contro i suoi mezzi e, quindi, la tendenza in gara è di vivere interiormente un’infinità di sentimenti, di incertezze, di speranze. Un microcosmo di immensa estensione morale, ma estremamente chiuso fino all’impenetrabilità. Fondamentale risulta essere la concentrazione che non permette distrazioni o emozioni eccessive e che spesso contiene il segreto della vittoria”.
… perché nella complessità non ci si può tuffare da soli
Tra l’imprenditore nella crisi che deve “rimboccarsi le maniche” di cui parliamo qui e la campionessa di tuffi ci possono essere tante similitudini, ma c’è anche una differenza, enorme. Il campione di uno sport individuale ha dietro di sé fior di coach, senior, massaggiatori… ma poi nel momento della performance è solo, chiuso fino all’impenetrabilità.
Se sei un imprenditore, un AD, un manager… serve una concentrazione simile ma insieme a un tuo team. Non funziona più l’impenetrabilità singolare di una scatola cranica, non basta più dire “io”; occorre dire “noi”, come se io, tu e loro fossimo i neuroni di un supercervello.
Tuffarsi tra le onde della complessità è uno sport di squadra, devi pensare insieme.
Qualche minuto non basta, ma non credere che serva più tempo del modo di lavorare che hai oggi, anzi!
Vedrai che quando si è imparato, l’orologio gira più lentamente: fai di più con meno fatica.
Facciamo sciame insieme
Si chiama intelligenza collettiva ed è parente dell’intelligenza connettiva.
A differenza dell’atleta di uno sport individuale, che attraverso il coach cerca il talento dentro di sé, qui c’è il tuo piccolo gruppo.
È una task force di decisori aziendali che chiede al coach di rompere le loro abituali funzioni e ruoli per mettere in relazione solo le idee e i punti di vista.
Il coach diventa un facilitatore, con domande, post it, a volte facendo credere che si stia “solo” giocando.
Il risultato è molto di più della somma aritmetica di quelle intelligenze, appartiene a quella matematica in cui 1+1=11; ne abbiamo accennato, ora approfondiamo.
Come funziona?
Spiegarlo non è facile ma proviamoci; comunque farlo è molto più semplice che dirlo. Non è una magia, noi umani siamo già capaci da sempre, solo che abbiamo perso l’abitudine. Alla base c’è la maieutica di cui abbiamo parlato qui.
Il processo funziona in carne e ossa o anche on line. Si basa su un principio di condivisione delle idee tra soggetti che hanno funzioni diverse, per es. dinamizzare e motivare (shaker) o recepire e riportare (mover). I processi di elaborazione sono interconnessi.
La pratica fa tesoro anche della teoria dello sciame intelligente (swarm intelligence), come accade alle api o agli stormi di uccelli; la serrata reciprocità delle azioni produce informazione e auto-organizzazione.
Il team serve a sentirsi benvenuti nei pensieri complessi
Ti ricordi, a scuola? ti facevano domande che avevano già una risposta, una sola risposta, e chi te le faceva quella risposta già la sapeva; quindi te la chiedeva solo per verificare che avevi studiato e non per ricevere da te un’informazione utile o interessante.
Ci facevano credere che fosse normale, ma era un inganno: che brutto gioco quello in cui sei sempre giudicato ma del tuo parere non frega niente a nessuno.
Non accadeva con tutti i prof, per fortuna, se noi e voi siamo su queste righe è perché c’è stata anche una scuola buona.
Ma eravamo a empowerment zero: ragionamenti meccanici,
prevedibilità, competere col compagno di classe e non con la propria ignoranza.
Buono per un mondo novecentesco, con delle catene gerarchiche verticali in cui ciascuno aveva i suoi task da eseguire e buona notte.
Qui non siamo in quella scuola di vecchio stampo, meglio abituarci a pensare in modo adeguato alla situazione complessa.
Non è difficile, anzi, è un vero sollievo, quando ci slacciamo il guinzaglio. Abbandoniamo il pensiero solitario e lineare e addio paura di sbagliare, addio obbligo di perfezione insindacabile.
Quando dico addio alla responsabilità tutta sulle mie spalle, le probabilità di sbagliare davvero si riducono notevolmente.
Ovvio, chi la considerasse la magica soluzione a tutti i mali ne tradirebbe la filosofia: dobbiamo e vogliamo prenderci, ciascuno, le proprie responsabilità.
Fare un team (e partecipare al suo interno) non è facile come dirlo
Il coach è molto prezioso in questa fase: un gruppo è una realtà complessa e all’inizio può sembrare esso stesso un “problema da gestire”.
Le parole di un nostro cliente (che poi è rimasto soddisfattissimo) è che la prima volta gli sembrava “un casino di casini individuali”.
Ma ogni manager lo sa, occorre dipanare la matassa nelle riunioni, mettere a fuoco il tema, raccogliere i punti di vista, moderare reciprocamente contenuti diversi… lavorare insieme è una competenza.
Poi arriva la scintilla, si comincia a pensare insieme.
Il team serve a prendersi le responsabilità: seriamente quindi senza ansia
Abbiamo letto mille volte frasi come “trasformare il problema in una soluzione”, “il vincolo è una risorsa”, “necessity is the mother of invention”.
Tutto vero, è la strada giusta, ma se la si trasforma in un mantra da ripetere pedissequamente, rischia di diventare l’ennesima scorciatoia deresponsabilizzante.
Anche a questo serve ragionare e progettare in tanti: aiuta la rimozione di tanti ostacoli pesanti e inutili, aiuta a scoprire che si può essere adeguati alla crisi, aiuta a ritrovare dei valori etici e umani anche sul lavoro.
Aiuta anche a dormire la notte e persino ad alzarsi il lunedì di umore decente.
Questo cambio di mentalità fa bene a tutti.
A tutti tranne alla Dea della Sfiga che abbiamo anche stavolta allontanato; ma state accorti, ci riproverà.
Immagine di copertina: “Free group bee beehive image” è contrassegnato con CC0 1.0.